Como Contemporary Festival 2025
COMO CONTEMPORARY FESTIVAL 2025
Survival: l’arte è vita
Il Como Contemporary Festival torna anche quest’anno, sia pure con un po’ di ritardo, pronto a proporre una serie di concerti caratterizzati dalla ricerca e dalla sperimentazione, all’insegna di un tema che sentiamo in modo molto forte.
C’è bisogno di musica. Bisogno di crearla, di eseguirla, di ascoltarla. C’è bisogno di musica non per distrarci, ma per respirare, per nutrire la nostra sensibilità, la nostra fantasia, il nostro ingegno. C’è bisogno della musica di chi ci è contemporaneo, di chi pensa, si emoziona e vuole vivere l’oggi assieme agli altri. C’è bisogno di uno spazio vitale nel quale l’umanità venga fuori al suo meglio.
E allora, perché non unirsi agli artisti in questo spazio vitale? Siamo abituati al piacere di riconoscere le forme usuali di espressione artistica e musicale. Ma qui vogliamo invitare il pubblico ad avvicinarsi anche a forme inusuali, a mettersi in movimento per scoprire il piacere di conoscere qualcosa di nuovo. In cambio del superamento di qualche resistenza, dovuta magari alla pigrizia o al pregiudizio, chi verrà ad assistere ai concerti ascolterà composizioni nate sotto il segno dell’autenticità. E troverà gente che crede in quello che fa, che considera la musica, nello stesso tempo, un atto d’amore (per gli altri, per sé stessi, per la vita) e uno strumento di “sopravvivenza”.
Il direttore artistico
Umberto Pedraglio
Un’isola per naufraghi
Ci sono artisti che consolidano la tradizione, altri che la modificano, altri ancora che la trascurano o addirittura la rinnegano. Artisti fedeli al passato, artisti che lo tradiscono e artisti che lo amano fino a sentirlo continuamente presente. Tutti ci offrono una dimensione diversa da quella ordinaria, un luogo dove sperimentare bellezza e intensità, profondità e altezza, ricordandoci che con l’ingegno e la creatività ci si può spingere sempre più avanti, sempre più lontano.
Nel corso della storia, infatti, non sono mai mancati gli uomini che, insofferenti di limiti e confini, hanno iniziato un viaggio che li avrebbe portati verso territori ignoti, pieni di insidie magari, ma anche di ricchezze inaudite. Con la loro tensione dal finito all’infinito, dalla misura all’immenso, dalla terra al cielo, spinti da una sete di durata – se non di eternità – hanno abbandonato le rassicuranti certezze di una vita statica per vagare alla ricerca di nuove conoscenze e nuove forme. Hanno scavalcato il recinto, mossi dall’inquietudine più ancora che dalla curiosità, e sono partiti. Il loro non è stato un mero tentativo di fuga, ma uno slancio di libertà e di espansione. Hanno esplorato, scavato, scandagliato – audacemente e tenacemente – e hanno scoperto tesori che hanno voluto condividere. Avventurandosi in terre sconosciute, hanno rischiato di morire per non morire. Per sentirsi davvero vivi, insomma. Hanno voluto cercare un altrove, divenire altro, creando un nuovo spazio dove, paradossalmente, poter essere sé stessi. Questi artisti-ricercatori spesso hanno trovato ricchezze non identificabili subito come tali, perché certe ricchezze sono come i minerali: bisogna estrarle dal sottosuolo. Poi, quando il minerale viene lavorato e un gioiello prende forma, si gode del suo splendore e non si pensa più al terriccio, alla polvere o alla roccia da cui proviene il materiale grezzo.
I musicisti-ricercatori, proponendo modalità espressive inedite, a volte sconcertano e destabilizzano, ma sempre meravigliano. Contravvenendo alle abitudini emotive e cognitive del pubblico, magari lasciano perplesso o contrariato qualcuno. Eppure non possono fare altro, perché la loro natura è quella degli esploratori, non dei custodi. I musicisti di questo genere accrescono il patrimonio comune, vi aggiungono qualcosa che non c’era e che solo grazie a loro ci potrà essere. Diventeranno suggeritori occulti o palesi. La loro opera farà anch’essa parte della tradizione, per essere a sua volta consolidata, modificata, trascurata o rinnegata. Resterà in ogni caso come esempio e fungerà da stimolo.
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Se alcune verità sono paradossali, altre sono persino banali: si muore perché si vive, ed è perché si vive che non si vorrebbe morire e si cerca un modo per diventare invulnerabili. Esistere, consistere, persistere: è il sogno di ogni essere umano e l’intenzione più o meno cosciente di ogni artista. Nella sopravvivenza c’è una sorta di provvisoria immortalità, poiché l’insidia è sempre presente, sia in senso letterale che in senso metaforico. Come ben sapevano i classici, l’arte è un modo per non morire. “Non omnis moriar”, non morirò del tutto, scriveva il poeta latino Orazio, cosciente che la sua opera gli sarebbe sopravvissuta e che lui stesso sarebbe sopravvissuto nell’opera. Sopravviviamo non con il corpo, cioè con la pianta della vita, ma con le opere, cioè con i frutti della vita stessa. Siamo semi che muoiono per diventare germogli, e poi piante, fiori, frutti – frutti che contengono nuovi semi. Ma certi semi si sviluppano solo in certi terreni, e certi terreni si trovano solo in certe isole.
Un festival di musica contemporanea, come del resto ogni opera d’arte, è un’isola per naufraghi: una terra ignota che offre riparo e al contempo chiede di essere scoperta e visitata. Il cerchio si chiude. L’artista, inquieto, viaggia tra mille difficoltà e trova un’isola ricca di tesori sconosciuti. La esplora e la abita. È salvo. Condivide poi quest’isola con i naufraghi, offrendo loro rifugio e nutrimento. La fine è rimandata. Le sofferenze e le traversie sono dimenticate. Tutto intorno si diffonde la fervida felicità dei sopravvissuti.
Alessandro Quattrone